venerdì, Dicembre 8, 2023
More

    “Addio, a domani”: il nuovo appuntamento di Don Diegoh alla musica.

    Share

    Una delle cose più affascinanti che la musica possa fare sia creare delle immagini attraverso le parole. E per immagini s’intende tutto un universo-mondo parallelo: costruzione di situazioni, rievocazione di memoria, sensazioni e sentimenti. Il tutto, in un gioco di parti: lato nostro, come ascoltatori-ricettori, e lato artista, immedesimandosi (o ipotizzando, azzardando) a pensare a quello che volevano o avrebbero voluto dire. Un pensiero contorno, ammettiamolo, ma che si potrebbe provare a spiegare così.

    Don Diegoh, foto di Edoardo Lio

    “Addio, a domani”, l’ultimo album di Don Diegoh (disponibile da oggi su tutte le piattaforme digitali e in formato fisico) per MacroBeats mi ha portata a visualizzare immagini diverse dopo i – per ora – primi due ascolti. Perché, anticipazione, non è un disco da primo e unico ascolto. Ad ogni modo, la prima volta in cuffia è stato un vero e proprio affollarsi di fogli che si impilavano nella mia testa: pieni di parole, di testi, di prove ed errori. L’ho percepito come un’esigenza incredibile di mettere nero su bianco, non solo per raccontare, ma per tirare le fila del discorso: chiudere un ciclo. Una necessità che a mia volta ho voluto assecondare, e così l’ho risentito ancora.

    Avete presente i musei di storia naturale? Quelli che ipoteticamente si aprono con uno scheletro di dinosauro enorme? Immaginate di camminarci sopra, osso dopo osso – vertebra dopo vertebra. Non si ha la sensazione di salire dei gradini ma nemmeno quella di proseguire su un rettilineo: si stanno percorrendo degli anni (va beh sì anche millenni, ere) di storia. La seconda cuffia con “Addio, a domani” è andata più o meno così: c’è uno storytelling fortissimo ma puoi addentrarti, fin dove Don Diegoh te lo permette, dentro un’altra storia ancora.

    L’invito della redazione di HHST è ovviamente quello di correre a sentire “Addio, a domani”. Ma prima abbiamo fatto due chiacchiere con Don Diegoh.

    Senti, farei un percorso a ritroso. Ti va se partiamo dalla cover album?Cosa volevi comunicare, insieme a Fabrizio Pisani e Dest, con la copertina?

    Il visual è affidato a Fabrizio Pisani con il supporto di Dest, crew member di Macro Beats da tanti anni. Ti dico, io considero tutti coloro che lavorano ad un mio album – ma proprio chiunque – come featuring effettivi al disco. Perciò li vedo proprio come un plus: aggiungono qualcosa e interpretano a modo loro tutto il percorso al progetto finale. E per “Addio, a domani” è stato proprio così: mettere un soggetto diverso dall’artista è stata una scelta assolutamente voluta. Inoltre si tratta di una persona che si mette a nudo in un determinato momento della giornata: la mattina, in dormiveglia, tra luce e ombre all’interno della stanza. È uno scatto d’autore forte perché ragazza seminuda. Ed è la stessa ragazza che appare nei primi due singoli. Quindi c’è sicuramente l’idea di creare un vero e proprio storytelling a partire dal visual. Anche la tag in copertina, così come in tutti i testi della tracklist del disco, non è casuale. Per me – che fino ad ora non ho mai scritto un testo su carta tenendo tutto nella mente, un vero e proprio esercizio di memoria che ho preso facendo freestyle – è stato un passo importantissimo con cui ho voluto dare una certo tipo d’importanza a tutto questo album. Ho voluto fare spazio nella testa perciò scrivere, come atto fisico, già dalla copertina del disco è stato necessario.

    Da “Pietre” a “Spine”: è una tracklist che a livello intimo ed emotivo va dal basso verso l’alto. Da una fine ad un nuovo inizio, sbaglio?

    Diciamo che ho lavorato un po’ per divisione: ad alcune cose a cui ho detto “addio” e ad altre ho detto “a domani”. Non proprio è proprio così generalista l’inizio, rimane sempre focalizzato su figure esterne – più o meno in modo marcato – finché non si arriva all’ultima traccia a cui do del “tu”: e quel tu sono proprio io.

    Quanto il tema dell’amore è in un binario parallelo con quello della scrittura? Ho avuto questa sensazione: in quasi tutti i brani parli anche delle rime, dei fogli. C’è stata la fine e l’inizio di una nuova relazione anche con lei?

    Da un paio d’anni si. È cambiata la mia scrittura, molto. Adesso che peso molto di più le parole, ne faccio una scelta molto maggiore. Le parole sono quei vestiti che scegli per fare uscire i pensieri: scrivere aiuta in questa cosa qui. Ho sentito il bisogno di dare un peso maggiore all’atto della scrittura. Amo scrivere e sono tanti i momenti in cui lo faccio, nonché svariati. Infatti è da tanti anni che ho sempre meno il freestyle come entità sia di rap che qualcosa che deve rimanere: quindi c’è proprio una differenziazione tra fare free scrivere una canzone. Io la vivo come un distacco tra presente e passato.

    Ti va di raccontarci un po’ delle produzioni? Anche qui c’è stato un grande cambiamento. Da “solo” Macro Macro a diverse collaborazioni. Con gheesa come si è sviluppato il progetto?

    Dipende. Capita che prima scriva poi ascolti. Qui è stato un po’ il contrario. Ho costruito in studio le linee melodiche e tutto il vestito sonoro con Macro Macro e gheesa, che si è occupato insieme a noi della curatela artistica. Ho voluto dare un’impronta diversa dal passato anche su questo fronte. Di base c’era la scelta di aprirsi e di dare spazio alle nuove generazioni, anche provenienti da ambiti diversi (come i fratelli Cosentino), e di fare – in generale – un drande lavoro di revisione delle produzioni. Volevo che tutto suonasse in maniera abbastanza omogenea e dove non c’era possibilità a livello sonoro, ho equilibrato con il mood dei testi.

    Don Diegoh, Ph By Edoardo Lio
    Don Diegoh, foto di Edoardo Lio

    Sai” per me è un po’ la traccia chiave del disco. In particolare: “scrivo rime finché non arriva il punto delle cose che non puoi sapere”. Ti va di dirci di più?

    Le parole non arrivano a tutto. Ho assistito a determinate situazioni che pur volendo non saprei descrivere a parole. Alle volte neanche le parole arrivano a descrivere quella cosa lì. È una presa di coscienza.

    “Sai” mi è sembrata anche un po’ il punto nodale: ho notato una sorta di switch, come se avessi ripuntato il focus su di te e non sull’altra. Infatti da “Astronave” a “Spine” rappi molto di più.

    C’è una divisione non casuale: un po’ quello di cui ti parlavo prima. Si passa dal focus sul qualcuno / qualcosa ad una chiusura del cerchio: ad un certo punto è come tornare all’acqua, quindi a se stessi. A parlare di me con me. Non mi aspetto che venga visto come un disco rap ma vorrei che si capisse come il rap venga sciorinato in modo diverso mantenendo la stessa attitudine. È un disco di incastri: suoni, temi, parole.

    “Questo è, dunque, il disco che avrei sempre voluto fare: per crescere come individuo, per sfidarmi dal punto di vista artistico, per lasciare il passato dov’è e costruire il futuro.”

    Negli altri dischi c’erano tanto e tanti episodi isolati. Non era pronto per fare un album così ma ora sì: a livello spazio-temporale era arrivato il momento.

    Cosa hai letto o ascoltato per scrivere questo album?

    Quando scrivo un disco cerco di distaccarmi un po’ da tutto. Sto iniziando ora a leggere molto, ad esempio. Volontariamente non vado a prendere tanti spunti dall’esterno: c’è il rischio che se guardi troppo ad una cosa prendi troppi spunti. Ho ascoltato tanta musica non rap, tanto cantautorato italiano (cosa che in realtà faccio da sempre). Non c’è qualcosa di parallelo al disco che uso come canale. Sicuramente una produzione in cui mi sono ritrovato è stata “Strappare lungo i bordi”, la serie di Zerocalcare. È stato incredibile perché è riuscito a trattare temi personali e interpersonali con un mood totalmente diverso: dando importanza della leggerezza.

    Camilla Castellani
    Camilla Castellani
    "A Spike Lee joint" IG @mimirtilla

    Forse ti può interessare...

    Qualche bel concerto...